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L'Induismo in generale e lo Yoga mentale

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Messaggio Da Lancillotto2013 3/21/2015, 15:37

Ho trovato questo interessante spunto e ve lo pubblico:





L'induismo in generale


Nell'Induismo l'intuizione fondamentale è che la realtà è Una. Il mondo, l'uomo, gli dèi, le cose che sono state, sono e saranno. Tutto questo è l'unica e medesima Realtà: "Tutto è Brahman" (Chandogya Upanisad). E quando la persona ha attinto una conoscenza illuminata, anche lei può dire: "Io sono Brahman" (Brhadaranyaka Upanisad).
Il Brahman è l'"Uno, senza secondo" (Chandogya Upanisad).L'io profondo dell'uomo, l'Atman, è anch'esso identico al Brahman. "Questo Atman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio; e tuttavia questo Atman dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo…Questo Atman dentro il mio cuore è il Brahman stesso" (Chandogya Upanisad).
E per quanto riguarda l'uomo, l'Induismo ripete da secoli la frase di Uddalaka a suo figlio Svetaketu: "Tu sei Quello" (Tat tvam asi) (cfr. Chandogya Upanisad). Viene così riconosciuto che il Brahman-Atman è l'unico Assoluto, la radice e il fondamento di tutto, il Signore che regge e sostiene ogni cosa, la guida interiore e il fine di ogni vivente. In questo senso, il mondo non è creato e non ha consistenza in se stesso.
Sia che esso venga concepito come Maya (illusione) presso il saggio Sankara (788-820 d.C.), o venga piuttosto descritto come il gioco di Dio, lila, presso i Visnuiti, esso è l'eterna manifestazione dell'eterno esistente, il volto fenomenico dell'Eterna Persona, la dimora mutevole del Permanente Inabitante. Quando si parla di inizio o di fine, di creazione e di distruzione, le parole si riferiscono ai processi ciclici di apparizione e di sparizione delle cose, di uscita e di rientro delle medesime nella loro eterna Origine.

Tutto ciò che appare è lo stesso Brahman, che si manifesta attraverso ogni cosa. Egli è la Realtà vera di ogni manifestazione. Solo se si considera un fenomeno a sé stante, si può parlare di inizio e di fine, di nascita e di morte; ma il fenomeno stesso è sempre stato in seno al Brahman, e sarà in lui eternamente custodito.
Allora l'uomo non muore con la sua morte fisica? Non solo l'uomo non muore, ma in realtà egli non è mai nato. La risposta che Krsna dà ad Arjuna nella Bhagavad Gita è la seguente: "Non ci fu mai un tempo in cui non ero, io, tu, e questi prìncipi tutti, né ci sarà mai un tempo in cui non saremo, noi tutti, dopo questa esistenza. A quel modo che in questo corpo il sé incorporato passa attraverso l'infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, così, alla morte, egli assume un altro corpo. Il forte non è su ciò mai perplesso" (2,13-14). In altre parole, l'io profondo di ogni uomo, la verità della sua persona, è l'Atman, ed esso è identico al Brahman.
"Egli non nasce e non muore mai, né, essendo stato, v'è tempo in cui non sarà ancora. Innato, eterno, permanente, antico, egli non muore, quando muore il corpo…A quel modo che un uomo abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il suo sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi"(Bhagavad Gita, 2, 21-23).

Com'è possibile che un uomo assuma diversi corpi?
 Per rispondere dobbiamo ricordare che l'induista è un uomo di fede e perciò dà fiducia a quello che i Rsi (i saggi ispirati che hanno veduto gli inni vedici e conoscono la verità) gli hanno tramandato. In base a questo, il singolo uomo che viene al mondo, era in cammino fin dall'eternità, per quel giorno, e l'eternità è di nuovo il resto del cammino che deve percorrere. Egli è sempre stato e sempre sarà.
E come egli è emerso dal seno del Brahman alla superficie della storia, così pure - a livelli più o meno elevati - egli ha sempre fluttuato tra le onde di quell'oceano, che è il fenomeno cosmico, e ancora fluttuerà, se la Grazia della Liberazione(Moksha o Mukti) non lo riporterà di nuovo in seno al Brahman.
Come poi questo avvenga, che cosa significhi assumere diversi corpi, e come sia possibile per l'uomo conservare la propria identità attraverso tutto questo, è una risposta che richiede una conoscenza che non necessariamente coincide con quella che l'uomo ha ora. E qui l'Induismo da interrogato diventa interrogante e chiede: "tu che non ti ricordi neppure che cos'eri durante la tua infanzia, che non sai nulla di quello che eri nel seno di tua madre, che cosa puoi sapere di quello che eri prima di essere concepito, e di quello che sei in seno a Dio?".
Gettato nel mondo, l'uomo rimane in balia del ciclo delle nascite e delle rinascite (samsara). L'uomo non potrà uscire dal samsara finché non attingerà l'Assoluto. Questo è il problema della Liberazione. Per l'Induismo si tratta allora non di fuggire dal mondo quanto piuttosto di rientrare in seno al Brahman.
Ciò che lega l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite è il karma (azione). L'uomo è normalmente spinto all'azione dal desiderio (kama) dei suoi frutti, dei suoi esiti. Ora, il desiderio dell'uomo nasce dal contatto con la realtà fenomenica e rimane chiuso entro i suoi confini. Per cui l'azione umana piuttosto che essere un fattore di liberazione, è la causa che vincola l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite.
Anche se l'uomo osservasse perfettamente tutta la Legge (Dharma), potrà ottenere una rinascita nobile, ma mai la liberazione. La Bhagavad Gita dice chiaramente che l'uomo non può essere liberato grazie alle azioni compiute secondo la Legge, mentre la liberazione è il perfetto congiungimento con l'Origine ultima di tutte le cose. Questo presuppone che si faccia pieno spazio alla sua presenza e alla sua azione. Essa è opera del supremo Signore; a Lui l'uomo deve affidarsi. Krsna dirà ad Arjuna: "Abbandonando tutte le idee di Dharma, prendi rifugio in me soltanto. Io ti libererò da ogni peccato. Non ti addolorare" (Bhagavad Gita, 18,66).

Ma allora Dio è per l'Induismo è personale o impersonale? Il Brahman-Atman delle Upanisad è un Assoluto impersonale, mentre la Bhagavad Gita introduce una concezione personale di Dio. Egli è la Persona suprema, che salva il suo fedele. Tale concezione è fondamentale per capire il tipo di Yoga che la Bhagavad Gita presenta come strumento di liberazione.

Yoga significa anzitutto unione e, in riferimento al diverso modo di concepire il termine di questa unione ed i metodi per realizzarla, si danno diversi tipi di Yoga. Lo Yoga classico comprende un insieme di tecniche che mirano al completo possesso di sé. La Gita accetta le tecniche dello Yoga, ma sostiene che, dopo tutti gli sforzi umani, è comunque Dio che viene incontro al suo devoto, ed in questo incontro si realizza la liberazione. Vi è una triplice via per la liberazione (trimarga): l'azione (karma yoga), la conoscenza (jnana yoga) e la devozione (bhakti yoga).

la via dell'azione è la via di colui che, sapendo che è Dio che agisce in ogni cosa, affida a Lui ogni sua azione e la compie senza attaccamento ai frutti;

la via della conoscenza non è la conoscenza che tutto è Brahman, ma è piuttosto la Grazia di una Rivelazione, manifestazione della Forma suprema di Krsna;

la via della devozione è la vera e propria essenza dell'Induismo, quella che permette di raggiungere la liberazione, ed è opera solo del Signore stesso. "Non per Veda, per i sacrifici e gli studi, non per le elemosine, non per i riti, non per le dure penitenze, posso io esser visto in tale forma qui nel mondo degli uomini: a te soltanto io l'ho rivelata, o campione dei Kuru…ma per la devozione diretta a me solo, o Arjuna: per essa io posso essere così conosciuto, veduto secondo realtà e penetrato, o Arjuna. Colui le cui azioni sono fatte per me, il cui supremo bene son io, colui che è a me devoto, privo di attaccamento, privo di odio verso i vari esseri, costui entra in me, Arjuna" (Bhagavad Gita, 11, 53,59-60).


Dopo il superamento di ogni concezione politeistica, l'Induismo ha tranquillamente rimesso in luce figure di dèi del pantheon vedico, quali Vishnu, Shiva e le Shakti, sapendo perfettamente che questi non erano degli dèi, bensì aspetti manifestativi dell'unico Dio personale. Dobbiamo anche precisare qui, perché molto nota in Occidente, che la celebre Trimurti (Brahma come creatore, Visnu come conservatore e Shiva come distruttore) è una elaborazione teologica posteriore che non riproduce reali movimenti devozionali all'interno dell'Induismo.
Non esistono movimenti devozionali rivolti alla Trimurti.
Inoltre essa non ha nulla a che vedere con la Trinità cristiana: non sono tre distinte persone, ma è il triplice modo di manifestarsi dell'unica sostanza divina. Insomma, quando l'Induismo parla di dèi, è solo per esprimere, attraverso essi e alle relative mitologie, i vari aspetti dell'unico ed identico Dio. Fatta questa premessa, si può parlare degli dèi dell'Induismo, che sono molti. Shiva rappresenta l'aspetto paterno di Dio, ma è anche distruttore e ricreatore di tutte le cose.
La sua shakti (l'energia eterna di Dio) è anche vista come Kali, dea della distruzione (ma poiché distrugge anche i demoni, è anche dea della protezione). Vishnu è l'immagine di Dio che ha forse il culto maggiore perché è legata alla sue numerose incarnazioni o discese (avatar), alcune delle quali, come Krsna e Rama, sono universalmente popolari. E poi vi è Ganesha, col corpo umano e la testa di elefante, figlio di Shiva, dio della conoscenza e della liberazione; Karttikeya, anche lui figlio di Shiva, dio del coraggio e della potenza; Hanuman, in forma di scimmia, personificazione della fedeltà, alleato di Rama; Agni, dio del fuoco, invocato nei sacrifici. Manasha, regina dei serpenti (naga) ecc.

I testi sacri.
Sono divisi in due categorie: i testi uditi o della rivelazione (srti), e i testi appresi o testi della tradizione (smrti).Ai primi appartengono i Veda e le Upanishad, chiamate anche Vedanta, ovvero fine dei Veda. Le smrti più note sono invece le due epiche: il Mahabharata (o grande India), che contiene nel sesto libro la Bhagavad Gita; e il Ramayana, in cui appaiono rispettivamente le due più popolari incarnazioni di Visnu, e cioè Krsna (nella Bahagavad Gita) e appunto Rama.


Le cerimonie.
Anche nell'Induismo moderno rimane il rito del sacrificio (Yajna), che consiste nell'offerta alla divinità di burro fuso, cereali, talvolta anche animali e del soma (liquore estratto da un vitigno, che è una sorta di bevanda dell'immortalità, offerta in libagione agli dèi; è anche sinonimo della Luna, per la somiglianza del colore; è estratto dalla asclepias acida). Normalmente queste offerte sono consumate nel fuoco e il sacerdote prega Agni di portarele offerte al cospetto divino. Il rito post-vedico più comune è la puja, la cerimonia di venerazione della divinità, durante la quale una statua del dio viene unta, vestita, ornata e profumata; vengono offerti cibo e bevande che però non sono consumati nel fuoco ma ridati ai fedeli; in particolari occasioni l'immagine del dio è portata in processione fuori del tempio. La forma normale della preghiera è la japa, che consiste nella recitazione e ripetizione di mantra, ossia parole e formule sacre. Il mantra più importante è la ripetizione del suono Om o Aum, che indica il Brahman. Ci sono poi ovviamente riti particolari per i diversi stadi della vita: nascita, ammissione ai doveri della propria casta, matrimonio, malati, defunti ecc.


Le feste.
In primavera si celebra Holi: la festa coincide con la luna piena del mese di Phalguna (febbraio-marzo). È appunto celebrata con la holi, una mistura di acqua, calce e altro che i fedeli si spruzzano reciprocamente. Oggi è connessa con la venerazione soprattutto di Krsna. In autunno c'è la festa di Dashara, nei primi dieci giorni del mese di Ashvina (settembre-ottobre). In essa viene onorata la shakti di Shiva (cioè Durga o Kali), ed è cara ai Shivaiti. Ma al decimo giorno si uniscono anche i Visnuiti perché si celebra la vittoria di Rama sul demone Ravana e la liberazione di Sita, sposa di Rama. A Shiva è consacrato ogni 14° giorno del mese lunare, ed in particolare è celebrato il 14 del mese di Magha (gennaio-febbraio), detto la notte di Shiva.
L'etica induista in generale



Nell'Induismo in generale la morale mantiene il suo carattere distaccato di mezzo e di purificazione (non è, come vedremo, come quella buddhista, in cui conta anche la partecipazione, la compassione, l'amore). Propedeutica della vera conoscenza, trascura le esigenze della vita associata o non vi insiste; ha di mira non i rapporti dell'uomo con la comunità ma dell'uomo con l'assoluto, è pertanto ascetica piuttosto che morale.
La morale si riduce ad un conflitto tra i desiderio, cioè il richiamo della vita, e la saggezza, cioè il superamento della vita. Quindi le proibizioni prevalgono sulle ingiunzioni; il peccato interessa più della virtù, e per peccato si intende il prevalere dell'istinto e dell'ignoranza. Nella Bhagavad Gita precetti morali e ingiunzioni religiose sono ancora congiunti.

La vita viene considerata dagli indiani duplice, come sotto una doppia luce. Da un punto di vista relativo, conmvenzionale, la società è divisa in caste e l'uomo è sottomesso a regole e doveri diversi a seconda dell'età. Ogni uomo passa per quattro momenti: la giovinezza, quando la continenza dei sensi è d'obbligo; l'età matura, quando col matrimonio e l'operosità attiva si assicura la continuità della famiglia e si assolve il dovere verso gli antenati; la rinuncia, quando giunge la vecchiaia; in ultimo lo stato di vanaprastha,il ritiro nella selva, in un completo distacco nell'attesa della morte.

Ma oltre questa vita, vi è l'altro piano, il piamo al di là del samsara, lo stato del Brahman, l'isolamento definitivo dell'anima da ogni contatto o suggestione dai vincoli della materia. Questo stato si consegue non con l'azione ma con la cessazione dell'azione. Ogni nostra attività deve quindi essere volta al supremo bene(naihsreyas), che coincide con l'arresto e il superamento del samsara. Perciò l'attenzione è tutta portata non tanto sui doveri umani quanto sulla ricerca della conoscenza che conduce all'arresto definitivo della vita. Il bene compiuto e io rispetto delle regole religiose sono certo preferibili al male, ma ci legano comunque all'esistenza, il loro frutto è perituro, limitato nel tempo. Non l'azione dunque, ma lo yoga, l'ascesi, agevolata e preparata dallo yoga, la gnosi, la conoscenza, il superamento del bene e del male. Ecco perché anche l'azione meritoria dev'essere disinteressata, non la deve accompagnare nessun pensiero di ricompensa futura.

Ma come si fa a predicare la rinuncia quando la vita stessa con le sue richieste implacabili ci getta in braccio al peccato?
Non c'è dunque conflitto tra le ingiunzioni della religione e della mistica ed i doveri sociali?
Fu il problema che si pose e cercò di risolvere il Bhagavad Gita.
La risposta di Krisna ad Arjuna è: l'atman che abita in fondo a ciascun uomo, amico o nemico che sia, è uguale in tutti. Colpendo i corpi, privando della vita i propri nemici, Arjuna non commette peccato perché egli è un guerriero e ciascuno deve assolvere i propri doveri, fissati dalla nascita. Peccherebbe invece non già uccidendo i nemici ma abbandonando il campo, perché questo sarebbe viltà e coprirebbe di vergogna sé e la sua famiglia. Ciò che occorre è compiere il proprio dovere.
L'azione non si può evitare, visto che la vita stessa è incessante azione, ma bisogna stare attenti ad agire senza desiderio od odio, senza che le passioni ne siano il nascosto movente.

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