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la registrazione di questo video,l'abbiamo decisa …

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Viveka e vairagya

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Messaggio Da Eroe per Caso 4/23/2017, 00:12

"Allora la mente si volge alla discriminazione (viveka) e a propendere verso il Kaivalya".

"Il non attaccamento (vairagya) è la consapevole padronanza di colui che ha cessato di avere sete di oggetti visibili e udibili [rivelati]".

(Cfr. La Via Regale della Realizzazione (Yogadarsana) di Patanjali, sutra IV 26 e I 15. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Ed. Asram Vidya)

In questi sutra Patanjali enuncia due processi operativi che sono peculiari al Vedanta: viveka e vairagya, discriminazione o discernimentotra il reale assoluto e il relativo-contingente tra ciò che realmente si è e ciò che appare e il conseguente distacco da ciò che non si è o che è pura apparenza.

Nello stato di aviveka si è guidati solo dalle "opinioni" e dalle proiezioni dell'inconscio collettivo. La mente è letargica, è vissuta dalle varie impressioni sensoriali e dal coinvolgimento passivo da parte del mondo dei nomi e delle forme.
Quando incomincia a sorgere nell'animo la luce del viveka, tutta la problematica cambia: v'è un interesse ai problemi fondamentaliesistenziali, v'è un atto di selezione, di valutazione e di sintesi in riguardo alla propria esperienza e ai valori dei rapporti; si cerca di scoprire la Costante che si cela dietro il flusso fenomenico delle forme.
Questo tipo di discernimento-viveka non è frutto di un processo del pensiero analitico o dianoetico, ma di una condizione illuminata della mente.

"Se, dunque, le cose stanno in questo modo, bisogna ammettere che c'è un (primo) fattore che è sempre identico a se stesso, non generato e imperituro, e che non raccoglie in sé nulla di estraneo né si trasforma esso stesso in altro, non visibile, né percepibile da nessuno dei sensi: ciò toccò all'intelletto di contemplare.

Ma, di nome uguale e ad esso somigliante ce n'è un secondo (fattore) sensibile, generato, e in continuo movimento che origina in un luogo e in questo perisce, apprensibile dall'opinione e con l'aiuto dei sensi".

(Platone, Timeo: 51b - 52a)

Se viveka acquista una certa forza, fa scattare l'azione di vairagya (distacco da ciò che abbiamo compreso essere non reale o contingente e impermanente).

"Si deve pure tener presente che viveka e vairagya sono legati in modo strettissimo l'uno all'altro, e sono in realtà due facce della medesima moneta.

Il viveka, aprendo gli occhi dell'anima, comporta il distacco dagli oggetti che la tengono in schiavitù, e il distacco così sviluppato, a sua volta, chiarifica ulteriormente la visione da parte dell'anima e le consente di vedere più profondamente nell'illusione della vita. Pertanto viveka e vairagya si corroborano e si rafforzano l'un l'altro e formano una specie di circolo che accelera, in modo sempre crescente, il progresso dello yogi".

Vairagya deriva da raga, termine definito da Patanjali in II 7 come il piacere che sorge in seguito all'attrazione, e quindi alla repulsione, per qualche oggetto.
Così vairagya significa assenza di qualsiasi attrazione- repulsione. Distacco derivato non da un'inibizione irrazionale o volitiva fine a se stessa, ma dalla consapevolezza-discernimento (viveka) chegli eventi-oggetti imprigionano soltanto senza risolvere alcun problema. Ogni tipo di attaccamento (piacere-dolore) costituisce un limite alla libertà dell'anima. In altri termini, viveka e vairagya danno la capacità di spaziare in libertà negli indefiniti processi della vita e sui diversi piani esistenziali fino al raggiungimento di kaivalya.

Così viveka può essere utilizzato su più alti livelli quando v'è un discernimento profondo tra ciò che è l'individualità o processo individuato dell'ente e l'anima o jiva che governa tale processo, o ancora tra ciò che è lo stesso jiva e l'atman in quanto pura coscienza di ordine metafisico.
Se viveka ha riconosciuto l'individualità come un fattore di "caduta", di separazione dal contesto universale, vairagya può portare la coscienza individuata a stabilizzarsi come jiva o consapevolezza universale; se viveka hariconosciuto lo stesso jiva come un semplice riflesso dell'atman, vairagya può portare a far sì che il riflesso di coscienza oggettivato o manifestato si sciolga nella sua fonte originaria e trascendente.

Questi passaggi, prese di consapevolezza, atti di realizzazione sono frutto di viveka e vairagya. La giusta utilizzazione di tali strumenti dipende ovviamente dalla particolare posizione coscienziale che si ha e dalla finalità che si vuole ottenere. L'advaita-asparsa inizia con tali mezzi e finisce col trascendere il mondo dell'avidya-maya.

"E pure necessario ricordare" sostiene I.K.Taimni "che la pura assenza di attrazione dovuta alla inazione del corpo, o alla sazietà, o all'interesse per altre cose, non costituisce il vai ragya". Può avvenire che " ... l'attrazione è semplicemente sospesa, pronta a tornare alla superficie non appena si diano le condizioni necessarie. Quel che occorre per un vairagya vero e proprio è la distruzione deliberata di tutte le attrattive e del conseguente attaccamento, e il dominio consapevole dei desideri... Il controllo sui veicoli attraverso i quali si avvertono i desideri e la consapevolezza dei dominio che nasce da tale controllo sono elementi essenziali del vairagya.
Per attingere questo tipo di dominio, si dovrebbe esser stati in contatto con tentazioni di ogni specie ed essere passati attraverso prove del fuoco di ogni varietà, uscendone non soltanto trionfanti, ma senza avvertire la minima attrazione. Poiché se si sente attrazione non si è completamente dominato il desiderio anche se non si soccombe alla tentazione".

Paola Melis

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Viveka e vairagya Empty Re: Viveka e vairagya

Messaggio Da Pierte 7/6/2017, 20:58

Addentrandosi nella foresta oscura della mente ci si imbatte talvolta in qualche doloroso spettacolo cui sovente non si riesce nemmeno a dare un nome, un'origine, un senso: sappiamo solo che si può manifestare tramite una morsa allo stomaco o un'oppressione al cuore che ne sconvolge il ritmo, oppure come un sentimento di rabbiosa impotenza, di smarrimento.

Improvvisamente la sicurezza, la fiducia in sé stessi viene meno, lasciandoci soli e oppressi dalla percezione della nostra «nullità».

Questi pensieri, che hanno solide radici abbarbicate nelle profondità del sensibilissimo sistema nervoso umano, si nutrono di illusioni e di vane speranze e, quando la mente è abbandonata a sé stessa, di fantasie prive di costrutto.

Qual è il «mostro» che provoca una reazione tanto forte e distruttiva? E' râga - l'attaccamento: alla passione, al piacere, alla soddisfazione dei propri desideri, ma anche, visto dalla parte opposta, a quell'esperienza gratificante che ci fa sentire vivi e attivi.

Râga, in questo senso, è la frustrazione di non poter replicare all'infinito quelle particolari condizioni che, in momenti precedenti, ci hanno tanto appagati.

E' un piacere anche fare 200 chilometri per andare a mangiare in un particolare ristorante; che rabbia scoprire, dopo tanta strada, che nel frattempo il ristorante ha cambiato gestione e la cucina non è più così buona.

Che emozione indicibile incontrare quella giovane donna che, unica tra milioni di altre donne, scatena una tempesta emozionale, una sete di intimità, un bisogno di comunicarsi sempre, in ogni modo, l'un l'altro, le mille novità dell'amore/passione, affinché quel piacere non si debba smarrire nelle strade impervie della Vita.

Siamo disposti persino ad arrivare davanti a un prete, per giurare di stare insieme «fino a che morte non ci divida» per poi, tempo pochi mesi, qualche anno al massimo, essere incapaci di superare l'amara scoperta dei difetti dell'amata. Che, nel frattempo, sembra diventata insopportabile. Lei che era l'unica, la sola.

Ma di chi è la colpa? Non è forse la «maledizione del sentimento del possesso», come diceva una mia saggia amica a proposito delle fatiche gestionali delle sue molte ville da miliardaria? Era dunque tutto questo suo correre dal mare alla montagna, da Parigi a Londra per verificare la condotta della servitù, le condizioni del tetto sfondato da una valanga, che le impediva di essere attenta al suo percorso spirituale, presente alle lezioni, sobriamente libera dai pensieri e contenuta nelle emozioni.

E che dire del piacere di accumulare denaro o cariche pubbliche che aumentano il prestigio sociale se poi ci si dimentica, letteralmente, o addirittura volutamente si ignora la realtà della propria autentica origine divina?

Si potrebbe obbiettare che tutto questo è logico, è la vita stessa; se mancano il desiderio, la passione, la curiosità, a che cosa ci si può attaccare?

Su questo occorre soffermarsi e riflettere poiché la parola stessa «attaccamento» ricorda una colla, ma di quelle forti, che tengono assieme anche i pezzi più malridotti e scompagnati.

Non a tutti infatti è così chiaro di essere fondamentalmente l'unione di spirito e materia. Ma anche a coloro a cui succede di cogliere uno sprazzo di spiritualità negli aspetti più triviali del quotidiano raramente viene da pensare veramente a quello che alcuni grandi scienziati hanno compreso, sancito e affermato soprattutto negli ultimi 400 anni: che noi tutti siamo Dio. Non un'emanazione, né una replica, ma realmente Dio.

Questa presa di coscienza, soprattutto da parte di chi pratica yoga, dovrebbe costituire la base di uno stile di vita e di pensiero completamente innovativo, pacifico e pacifista.

Pensare di essere spirito semplicemente perché partecipiamo ogni tanto a qualche rito religioso o materia perché abbiamo fame e mangiamo significa limitare in maniera assurda il senso della propria esistenza.

Anche chi conosce il significato della parola karma, spesso segna un confine tra «buon karma» e «karma cattivo», quando in realtà la questione è ben più complessa.

Non saper cogliere il significato di quegli accadimenti che disegnano la trama e l'ordito di una vita tutta personale (purusha - coscienza - e prakriti - forza della materia - nella loro inscindibile peculiarità) rappresenta un freno potente sul piano evolutivo.

E, d'altra parte, se da millenni tutte le chiese si danno un gran daffare per nascondere la verità, come può un individuo pensare ragionevolmente di essere Dio?

Se la discriminazione (viveka) non opera costantemente alla distruzione dell'ignoranza e dell'illusione e non si oppone alla forza di râga, questa prende il sopravvento nella complessa struttura della mente e genera ogni sorta di attaccamento.

Ma, pensiamo, persino la forza avvolgente di uno splendido rampicante può compromettere la solida struttura di un palazzo. Eppure, un rampicante che disegna colorate spirali sui muri di una casa, a primavera, è un bellissimo spettacolo.

Cosa fare dunque? La grandezza sublime dello Yoga ha previsto tutto e per ogni problema ha trovato una soluzione esatta e scientifica.

«Neti neti»: una breve locuzione che ognuno può ricordare perfettamente, come un mantra, e che racchiude la sapienza discriminante di chi ha visto tutto e ha percorso tutte le strade.

«Neti Neti» ovvero «non è questo, non è quello». Avendo stabilito a priori i nostri obiettivi spirituali con sufficiente chiarezza e onestà, ci sarà abbastanza facile, nel tempo, individuare nella folla eterogenea e disordinata dei pensieri che assediano senza sosta la nostra mente, quelli che meritano accoglienza, accudimento e concentrazione e quelli che, invece, vanno scartati senza indugio in quanto molesti, noiosi, invadenti nelle loro esigenze senza costrutto.

Si tratta di una ginnastica difficile, soprattutto all'inizio, quando le passioni predominano sul pensiero.

Ogni volta, di fronte e una scelta, bisognerebbe chiedersi: ha valore questa opzione per la mia realizzazione? In assenza di un sì deciso, senza dubbi né perplessità, verrà spontaneo ripetersi mentalmente: «neti, neti», «non è questo ciò che mi serve e non è nemmeno quello».

Così si cresce, così ci si abitua agli accadimenti che il karma ha in serbo per noi, così si conquista la propria morte in una visione gloriosa e coerente con la vita vissuta.
Pierte
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